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Dicono che a trent’anni le cellule cerebrali cominciano a morire e questo dovrebbe spiegarci perché, giunti ad una certa età, chi più chi meno, si diventa un po’  evanescenti: svanisce la memoria e con essa la nostra capacità di riconoscere e riconoscerci.

Intanto c’è quel chi più chi meno che dovremmo cercare di spiegarci per capire se in qualche modo possiamo riuscire a contrastare il fenomeno. Tutti sappiamo che quando ricordare è spiacevole diventiamo abili nel dimenticare o anche rimuovere, se si preferisce, ed è esperienza comune che in momenti e periodi di particolare tensione diventa più facile confondersi e lasciarsi sfuggire le cose.

Quando la tensione e la fatica durano per lungo tempo questo tipo di logoramento ed usura possono intaccare più a fondo le strutture del nostro pensiero. Così nasce un dubbio: non è che il decadimento mentale legato alla età rappresenta una sorta di difesa, un modo per dimenticare le preoccupazioni, ovvero una strategia per analgesizzarsi instupidendosi? Se questa fosse anche solo una parte della verità sarebbe utile saperlo.
Esistono persone, di solito donne, che si riconoscono per l’atteggiamento umile, reverente e tristemente dimesso che assumono nel rapportarsi agli altri: normalmente si tratta di donne rassegnate ad un abituale maltrattamento od abuso domestico.  Se qualcuno ti tratta uno schifo e tu lo accetti, puoi diventare effettivamente una nullità: per riuscire ad accettarlo, dovrai convincerti di averlo in qualche modo meritato e quindi di essere realmente uno schifo. Chiunque ne approfitterà, anche solo per il tornaconto narcisistico di sentirsi migliore di un altro. Queste donne invecchiano presto e talvolta danno l’impressione di essere ottusamente impenetrabili. Per i bambini può accadere, in parte, qualcosa di analogo: possono deprimersi ed impoverirsi, ma anche, in alternativa diventare serbatoi inesauribili di rabbia.
La violenza peggiore è sempre quella familiare e domestica, perché inestricabilmente intrecciata con gli affetti e quindi con l’immagine di sé stessi che si riesce ad introiettare. Per capirci supponiamo che uno venga aggredito per strada e ferito con un coltello, certo subirà un trauma, ma se uno viene in qualche modo condizionato fino al punto di autopunirsi, ferendosi con un coltello, non solo subirà quel trauma, ma avrà qualcosa di profondamente danneggiato dentro di sé, molto più difficile da rimettere a posto, ammesso che ne abbia le risorse intellettuali ed emotive.

Questo è tra l’altro ciò che può avvenire a molti dei bambini che subiscono abusi (anche sessuali) da parte di persone di cui si fidano e con cui hanno un legame affettivo. Qualcuno prima o poi ne viene fuori, ma  tant’è: a volte il tempo che uno impiega a capire qualcosa di importante, ecco che la vita è già passata e tu ti senti sconfitto e defraudato. Se anche tutto il mondo universo volesse ora darti ragione ed essere dalla tua parte (il che è altamente improbabile quando sei tu quello sconfitto) nessuno, dico nessuno, potrebbe restituirti un solo istante del tempo perduto e con quello le cose che non hai mai potuto avere.
Questo è vero non  soltanto per il maltrattamento fisico e l'abuso sessuale, ma anche per la svalutazione, l'insulto, l'abbandono affettivo ed altre forme di violenza che feriscono i sentimenti e ledono la dignità delle persone. 
La struttura dei rapporti familiari di una persona può farci comprendere molto del suo modo di pensare, della sua filosofia della vita e della sua ideologia sociale, perché l’idea che uno ha veramente non è quella sbandierata nei discorsi politici (ricettacolo ricchissimo di mistificazioni ideologiche e manipolazioni varie), l’idea che uno ha veramente è solamente quella che pratica.

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