L'etica e la natura umana
Ecco: questo è un argomento del quale da secoli trattano filosofi e scienziati, giungendo sempre a conclusioni diverse e che spesso paiono più facilmente leggibili come espressione di un desiderio o di una istanza emotiva del pensatore, che come conclusioni logiche o scientifiche fondate. Le due tendenze fondamentali sono, come si può prevedere, quella ottimistica e quella pessimistica: ovvero l'uomo è buono per natura, ma incattivito dalle circostanze e, viceversa, l'uomo è cattivo per natura, ma ammansito dalla educazione. Evidentemente da questa dicotomia non si può uscire e, forse, l'unico modo per dire cose più realisticamente sensate è di mettere in discussione il linguaggio utilizzato e chiarire la natura ed il significato delle parole.
Il buono ed il cattivo sono categorie, peraltro le più primitive, coniate prima che dalla mente dalla percezione umana: "buono" è qualcosa che ci piace ed induce in noi uno stato di soddisfazione e benessere, "cattivo" è qualcosa che ci fa star male e ci fa soffrire. Buono è il latte caldo e dolce succhiato al tiepido ed accogliente seno materno, "buona" è la sicurezza dell'essere accolti e sostenuti. Cattiva è la fredda fame, la paura e l'angoscia di morte.
Cominciamo col notare, quindi che esistono cose buone e cose cattive solo in rapporto alla percezione di un soggetto, più difficile sarà dimostrare che esistono soggetti buoni e soggetti cattivi: per non incappare in una questione filosofica senza sbocchi, sarà meglio parlare di persone che fanno del bene e persone che fanno del male.
Mettendo la cosa in questi termini ci rendiamo conto immediatamente che non può esistere alcuna persona che abbia fatto solo del bene, né alcuna che abbia fatto solo del male ed oltre a questo l'effetto buono o cattivo di un qualsiasi atto può verificarsi anche indipendentemente dalla prefigurazione di scopo dell'atto stesso.
Per spiegarmi: io potrei buttare via del cibo, imbrattando la strada ed infischiandomene di mancare di rispetto ad altre persone e cionondimeno potrei, senza averlo voluto o considerato tra gli obiettivi del mio gesto, nutrire dei poveri randagi affamati di passaggio. Cose di questo genere sia in un senso che nell'altro possono accadere di frequente,essendo le persone dotate di una capacità di analisi della realtà e di previsione degli effetti del proprio agire su di essa comunque limitata, seppure in diversa misura a seconda del soggetto (in altre parole considerate sempre l'ipotesi che alcune persone possano essere più stupide che cattive).
Nella natura umana gioca un ruolo fondamentale proprio la percezione primitiva: il nostro istinto a sopravvivere ci porta a ricercare quelle situazioni che sentiamo come soddisfacenti e rassicuranti, cioé le cose per noi "buone". Tra queste, essendo l'uomo è un "animale" sociale, c'è l'aggregazione in gruppi che è parte dell' istinto. L'appartenenza ad un gruppo migliora la sicurezza perché si può contare sull'aiuto degli altri in caso di pericolo e sulla loro cooperazione per il raggiungimento di uno scopo condiviso. Essa consente, inoltre, di comunicare ed arricchire la propria esperienza e le proprie conoscenze: questa è la base di ciò che noi chiamiamo "solidarietà".
A questo punto è facile comprendere che il nodo sta nella condivisione di quanto percepito come "buono", piuttosto che nella dicotomia buono-cattivo.Un secondo nodo lo incontriamo nella distinzione tra ciò che nella psicologia viene definito "piacere immediato" e "piacere differito", ovvero con la maturazione della capacità critica e quindi della lungimiranza nella prefigurazione di scopo, si può giungere ad una rinuncia parziale o totale di una soddisfazione appunto immediata per perseguire qualcosa di buono che potrà così essere raggiunto in un secondo momento.
La difficoltà od incapacità di prefigurare scopi a lungo termine oppure di prevedere correttamente gli effetti dei propri agiti, stanno alla base di molti dei comportamenti che possono essere considerati "cattivi" nella valutazione etica. La capacità di essere solidali con gli altri è legata ad un meccanismo di "identificazione" che è possibile quando vi sia conoscenza ovvero esperienza, magari soltanto simile e limitatamente ad alcuni aspetti, della situazione che l'altro può star vivendo: benché appaia banale ("il sazio non crede al digiuno") ad esempio chi non conosce cosa sia la fame, né ha strumenti cognitivi anche solo per immaginarla, avrà difficoltà a capire ed a sentirsi veramente solidale con i popoli che affrontano questa mostruosità nel loro quotidiano. Molte realtà sono banali e per questo le perdiamo di vista o ci sembrano poco importanti. Nella nostra civiltà esistono diverse circostanze che possono causare qualche squilibrio: il sovraccarico dei ritmi quotidiani, ad esempio, è una condizione di stress che, come una malattia, ci induce a restare concentrati solo su noi stessi come è necessario per superare l'emergenza. L'eccessiva protezione familiare dei figli che non restituisce loro una corretta conoscenza dei propri limiti ed al contempo li rende insofferenti a quanto li circonda e così via.
Per dirla in breve, si registra uno squilibrio nella distribuzione della sofferenza: chi non ha mai sofferto non può comprendere, né essere solidale, ma continuerà ad essere un piccolo onnipotente della età affettiva di circa tre anni; chi, invece, ha sofferto troppo, tanto da sentirsi abbandonato, se continua a vivere, tenterà di scaricare fuori di sé l'angoscia e la rabbia riversandola sugli altri.
Le persone che fanno del male, di solito, sono persone che vivono sentimenti negativi, di quelli che logorano all'interno e fanno star male, tanto per dare un'idea: paura, invidia, bisogno di controllo, ma se tutti vogliamo riuscire ad essere felici e sentirci bene, queste persone, benché talvolta apparentemente vincenti, non riusciranno a raggiungere lo scopo.
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