Dalla competizione alla violenza
Si fa presto a dire che una persona è aggressiva, connotando, come è ovvio, negativamente l'attribuzione e quindi stigmatizzando l'individuo in oggetto come violento, prepotente e prevaricatore.
Ora vorrei partire da alcune considerazioni abbastanza scontate per rivisitare il concetto di aggressività nel suo insieme.
In un post precedente ho accennato alle fisiologiche dinamiche di competizione nei gruppi sociali, rilevando come esse siano espressione della naturale tendenza di ciascun individuo ad affermare se stesso: è universalmente noto che le persone incapaci di ritagliarsi il proprio spazio nel mondo o in qualsivoglia contesto sociale, come area propria, spettante per diritto e necessaria alla propria esistenza, sono persone che finiscono relegate ai margini, perdono la considerazione e la stima sociale ed infine vengono considerate "perdenti".
Ci sono buone probabilità che gli individui in questa situazione appaiano "depressi" il che rappresenta una attribuzione gravata a sua volta di connotazioni negative pesanti.
- A fronte di una situazione di malessere sociale che precluda a ciascuno di ottenere e conservare il proprio spazio vitale, sia nel senso concreto (approvvigionamento dei mezzi di sussistenza) sia in quello metaforico (spazio di espressione e relazione sociale) la fisiologica dinamica di competizione interna ai gruppi sociali tenderà a privare alcuni individui dei propri spazi a vantaggio di altri per il noto meccanismo di selezione naturale che favorisce il più forte. Se mettiamo troppi topolini in una gabbia, alcuni verranno uccisi dai compagni e se non forniamo cibo a sufficienza per tutti, alcuni verranno scacciati dalla comune mensa e lasciati morire di fame dai compagni.
- La naturale tendenza espansiva ed esplorativa dell'io (l'autoaffermazione e la conquista di spazi, nel senso sia materiale che figurato) implica nel momento in cui si svolge entro determinati limiti di spazio e tempo, la riduzione dello spazio disponibile per gli altri individui e questo genere di conquista non necessariamente avviene col consenso completo degli altri individui in questione. Chi vede ridursi i propri spazi non sempre condivide questo genere di operazione, né cede terreno di buon grado: ne consegue che gli individui decisi ad affermarsi dovranno affrontare una lotta, difficile da condurre a buon fine senza mettere anche in atto condotte per alcuni aspetti aggressive. Sia poi detto per inciso che i limiti di spazio e tempo rappresentano costantemente i limiti entro i quali si svolge la nostra vita ed è pertanto molto difficile che una qualsivoglia competizione possa essere giocata al di fuori di questi confini.
- Il modo più semplice e sicuro per farsi spazio ed affermarsi consiste nel farlo a spese dei soggetti meno difesi, ovvero i più deboli: la cosa può essere ottenuta sia attraverso la manipolazione (ad esempio la induzione di sensi di colpa in persone emotivamente fragili e/o scarsamente critiche) che attraverso la intimidazione e la violenza diretta (fisica o verbale) a seconda anche del tipo di competizione e delle caratteristiche dei soggetti coinvolti. In tutti i casi il più furbo o il più forte avrà buone possibilità di prevalere e si espanderà e fortificherà progressivamente collezionando vittorie. Su di un piano logico e pragmatico quindi gli conviene sempre affrontare un avversario un pò più debole. La cosa è di fatto una legge di natura (per il meccanismo di selezione cui prima si accennava) e naturalmente implica anche vantaggi personali: contro il più debole si esce facilmente vincenti e le possibilità di subire ritorsioni sono ovviamente scarse (qui la legge della selezione naturale si incontra con l'istinto di sopravvivenza).
Nelle brevi considerazioni qui sopra sono stati messi a fuoco alcuni meccanismi per così dire biologici che però in natura sono autolimitati in quanto strettamente funzionali alla sopravvivenza ed alla riproduzione (non gratuiti, come invece avviene spesso nella specie umana) ed in quanto imbrigliati anche da altre necessità quando si tratti di creature sociali che vivono in branco: la necessità di tutelare il branco (o gruppo) in quanto strumento di forza e di protezione per tutti, funziona da argine alle tendenze espansive individuali che non possono spingersi oltre certi limiti, senza frammentare e distruggere il gruppo sociale. Superfluo aggiungere che tutto ciò che noi chiamiamo etica, dogma religioso, legge dello Stato e così via, rappresenta la formalizzazione e la ritualizzazione di quelle norme che devono tutelare la struttura (anche gerarchica) del gruppo sociale e la sua stabilità.
Quanto espresso fin qui ci serve a tenere presente che l'aggressività come tale non necessariamente è in sé negativa, ma rappresenta un aspetto ineliminabile della nostra natura umana.
Sotto il profilo sociale invece noi siamo portati a considerare negativa quella forma di aggressività e violenza che sconfina oltre i limiti di tutela del gruppo sociale, risultando eccessivamente distruttiva e quindi svantaggiosa per tutti.
Chi è che diventa violento oltre i livelli socialmente accettabili?
Di solito si tratta dei soggetti già educati alla violenza, le persone che hanno subito violenze infatti, tendono a riprodurle per due ottime ragioni: primo perché si tratta dell'unico modello relazionale sperimentato e conosciuto, l'unico che il soggetto è riuscito ad apprendere sotto il profilo cognitivo ed anche quello che gli ha fatto accumulare rabbia ed odio sul piano emozionale.
Se l'unico modello di relazione conosciuto è quello di aggressore-vittima è abbastanza naturale che l'individuo voglia identificarsi all'aggressore per istinto di autoconservazione: la violenza è quindi un male contagioso ed ereditario ...
Inevitabilmente la rabbia verrà convogliata e scaricata sui soggetti più deboli: se la persona violenta è socialmente una persona emarginata tenderà a prendere di mira individui del tutto indifesi.
La gratificazione narcisistica legata allo sperimentarsi vincente di norma rinforza i comportamenti violenti: queste persone possono dichiarare una elevata stima di sé, ma i loro agiti sono tesi ad esorcizzare il terrore di poter essere vittime indifese ed a convalidare l'identificazione all'aggressore vissuto nell'immaginario emozionale come una divinità onnipotente.
Non necessariamente tuttavia le persone violente hanno subito maltrattamenti: quando nel corso dello sviluppo, la posizione depressiva ed in seguito il principio di realtà, legati alla graduale acquisizione di consapevolezza dell'altro da sé, poi del mondo esterno e dei propri limiti personali non sono stati adeguatamente accettati ed integrati nei processi di individuazione, di formazione ed introiezione della immagine di sé, può accadere che ne derivi una strutturazione alterata della personalità con rimozione di alcuni nuclei emozionali e bisogno di controllo e dominio sugli oggetti investiti di un valore affettivo distorto.
Malgrado l'acquisizione di controllo e dominio su altri possa accompagnarsi ad un vissuto soggettivo di euforia, la soddisfazione difficilmente è duratura. L'oggetto posseduto e dominato può essere disprezzato e quindi distrutto ...
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