Riflettendo sulla pace in una prospettiva laica.
Da alcuni giorni, da quando c'è stata il 7 settembre la giornata di digiuno e di preghiera per la pace, voluta dal papa Francesco, la mia mente continua a girare intorno all'argomento: emergono pensieri, confronti, riflessioni, analogie teoriche e risonanze emozionali riferite a ricordi personali, letture, aree culturali e quant'altro può essere collegato con una tematica che è al tempo stesso così universale e così individualmente profonda.
La cerimonia, la preghiera ed il digiuno voluti dal papa hanno rappresentato un evento di grande risonanza mediatica, che ha coinvolto non solo i cattolici di tutto il mondo, ma anche i principali esponenti di molte altre religioni ed ha toccato profondamente molte coscienze.
Non credo abbia importanza che tra le adesioni si siano contate anche quelle di personaggi dubbi o certamente ipocriti: questo è inevitabile qualunque cosa si proponga.
Ciò che invece ha importanza nel messaggio trasmesso è la sua forza legata alla sua intensità ed alla sua estensione pressoché universale e vissuta nel mondo intero.
In qualche modo la religione sembra riappropriarsi di una ragione etica che è appartenuta ed appartiene alle ideologie ed alla filosofia, laddove la istituzione ecclesiastica, come tale, è apparsa troppo spesso nella nostra storia, cauta e schierata col potere costituito.
La pace è stata la tematica cardine della generazione dei figli dei fiori, più o meno ai tempi della guerra in Vietnam. Una cultura quella, affogata meschinamente nell'uso di delle droghe, ma che si diffuse in tutto il mondo anche o forse soprattutto attraverso l'arte e la musica.
La pace oggi è uno degli obiettivi principali dei movimenti ambientalisti ed ecologisti, che nel loro amore per la natura, esprimono quella prospettiva collettiva ed universale, che (come nelle religioni e nelle ideologie) trascende i limiti individuali ed individualistici cui spesso sono improntati i modi di pensare e gli stili di vita della nostra epoca.
La pace esprime equilibrio: non può esistere pace dove vi sono squilibri ed oppressione.
Paragono una frase tra le mie preferite, pronunciata da Winston Smith il protagonista del romanzo 1984 di G. Orwell:
"Perché preferisco un fatto positivo ad uno negativo (...) In questo gioco che stiamo giocando non possiamo vincere: un certo tipo di sconfitta è preferibile ad un certo altro tipo"
con quanto semplicemente espresso dal papa Francesco quando ha detto:
"Che guerre facciamo se non riusciamo a vincere quella guerra profonda dentro di noi contro il male?"
e penso a cose già espresse e sostenute tempo addietro in questo blog: se combattiamo ciò che è negativo dobbiamo prima proteggere il nostro animo dal nemico, come una cittadella assediata.
Se il male entra in noi la guerra va fatta dentro e non più sui confini delle mura: non c'è vittoria se il nemico è dentro e si è già impadronito della città, non c'è vittoria se anche la nostra individualità è impregnata del negativo ... la vera vittoria è quella della solidarietà, dei valori positivi, quella che elimina la meschinità e gli egoismi piuttosto che rifletterli, amplificandoli in un gioco di specchi attraverso un conflitto che non può per definizione (male contro male) essere risolutivo, ma solo destinato a riprodurre eternamente se stesso.
La vera vittoria non è essere primi, la vera vittoria è essere migliori!
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