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Il cuore e le emozioni: in che misura lo stato d'animo e la personalità incidono sulla mortalità per malattie cardiache

17/09/2013

Antichi modi di dire popolari, come "morire di crepacuore" o "il riso fa buon sangue" continuano a trovare riscontro in diversi studi scientifici, a riprova che la saggezza degli avi, anche se ignoranti, va compresa e studiata prima di essere liquidata come una vacua ed infondata credenza.
Personalmente ritengo che la distinzione tra soma e psiche non rappresenti altro che un artificio scolastico, anche utile nel momento dell'analisi, ma di cui poi bisogna sempre saper riconoscere i limiti rispetto alla sua funzionalità come chiave di lettura delle realtà individuali sia in condizioni di buona salute che di malattia.

Oggi sono numerosi gli studi che si sono occupati di stabilire correlazioni tra le condizioni di stress, ansia o depressione e l'incidenza ed il decorso di numerose patologie, ma anche,  viceversa sull'influenza che sentimenti positivi possono avere sull'andamento di determinate malattie.
Certamente è intuitivo che lo stress ed il malessere psichico, comunque determinato, siano, come tali, responsabili di un generale abbassamento delle difese dell'organismo e possano pertanto renderlo più vulnerabile agli attacchi dei patogeni o influenzare negativamente il decorso di  malattie organiche in atto.
Inversamente quindi  una forte motivazione ed un atteggiamento positivo verso la vita ed il mondo potrebbero funzionare da fattori di protezione.
Questa è  l'idea che da alcuni anni sta orientando diverse ricerche mirate a verificarne i fondamenti scientifici.

L'ultima novità al riguardo è uno studio pubblicato su Circulation: cardiovascular quality and outcomes
della American Heart Association, curato da Susanne S. Pedersen, che riguarda proprio la ricerca di una correlazione tra la mortalità per malattia cardiaca in rapporto al tipo di personalità ottimista o pessimista.

Va detto che questo gruppo di studiosi ha già pubblicato lo scorso anno i risultati di alcune ricerche   che consentivano la correlazione tra personalità "di tipo D" (tendente ad affettività negativa e malessere psichico) e rischio cardiaco:
"Diversi studi dal nostro gruppo di ricerca hanno esaminato il concetto che la personalità di tipo D è una tendenza generale al disagio psicologico che influenza gli esiti cardiovascolari.  I determinanti di disagio psicologico come marker di rischio cardiaco  sono ancora poco chiari, di conseguenza, un certo numero di questi studi si è concentrata anche sul ruolo della personalità di tipo D, come fattore predittivo di difficoltà."

Oggi con quest'ultimo studio viene valutata invece, sempre nell'ambito delle patologie cardiache, la effettiva capacità di protezione offerta da una condizione di benessere psichico legata ad una struttura di personalità connotata da tendenza ad affettività positiva ed ottimismo.
Lo studio, pubblicato il 5 luglio 2013,  è stato condotto su 607 pazienti con cardiopatia ischemica trattati presso l'Holbaek Hospital in Danimarca: i pazienti sono stati inseriti nello studio nel 2005 ed è stata loro somministrata la GMS (scala standardizzata di valutazione del tipo di affettività).
 Sono poi stati rilevati dal 2006 al 2010 i dati relativi alla mortalità ed alle ospedalizzazioni: il dato importante emerso è stato che i pazienti connotati da una affettività altamente positiva hanno presentato un rischio significativamente ridotto  per tutte le cause di mortalità (di oltre il 6% inferiore all'altro gruppo) ed inoltre essi erano quelli che si tenevano più frequentemente in esercizio fisico .
I ricercatori ritengono che l'attività fisica funzioni da mediatore nella relazione tra lo stile di affettività positiva e la mortalità per cardiopatia ischemica.
In conclusione i pazienti caratterizzati da spirito ed umore positivo sono quelli che più probabilmente si mantengono in allenamento ed hanno una minore mortalità per i 5 anni di follow up studiati.
Gli interventi mirati ad aumentare sia i sentimenti positivi che l'attività fisica sortiscono i risultati migliori rispetto a forme di intervento focalizzate esclusivamente su uno soltanto di questi fattori.


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