Dislessia: individuata una alterazione genetica responsabile
Da qualche tempo si parla molto dei cosiddetti DSA (disturbi specifici dell'apprendimento) specie in relazione alle normative di legge, che (non senza fatica) cominciano finalmente ad essere applicate in ambito scolastico per consentire ai bambini e ragazzi con questo disturbo di svolgere agevolmente il proprio percorso di studi, senza sentirsi discriminati e rimanere indelebilmente segnati nella propria autostima dall'esperienza dell'insuccesso scolastico.
Sappiamo che la dislessia, così come altri disturbi dell'apprendimento, può presentare una incidenza familiare e pertanto alcuni filoni di ricerca si sono concentrati appunto nella individuazione dei correlati genetici del disturbo.
Ieri il nostro CNR ha diffuso la notizia della pubblicazione di uno studio italiano condotto da diversi ricercatori facenti capo sia allo stesso CNR che alle Università di Pisa e di Milano, dove è stato indagato il ruolo di un locus genetico (DCDC2) che risulta alterato nel 20% dei dislessici.
Il lavoro è stato pubblicato il 27 maggio sulla rivista the Journal of Neuroscience: gli studiosi dimostrano l'associazione tra l'alterazione del gene DCDC2 e la presenza di un particolare disturbo della visione: fino ad oggi infatti, malgrado fosse già riconosciuta la frequente presenza di questo gene alterato nei dislessici, non ne era ancora stato individuato il ruolo, ma grazie a questo studio, la riscontrata associazione con il disturbo della visione, consentirebbe di classificare questa forma specifica di dislessia come un sottotipo, dove è appunto il disturbo di integrazione o l'alterazione di una specifica forma di gnosia visiva la condizione responsabile del deficit funzionale.
In particolare è stato riscontrato che le persone con questa alterazione visiva sono capaci di riconoscere forma ed orientamento di una immagine od oggetto, ma sono "ciechi" nell'individuare la direzione del movimento di alcuni stimoli visivi.
Secondo i ricercatori il difetto genetico potrebbe funzionare come marker capace di consentire l'individuazione precoce almeno di questa fetta di soggetti dislessici ai quali quindi potrebbe essere garantito un trattamento riabilitativo efficace fin dalla prima infanzia, vale a dire nell'età di massima plasticità neuronale, quando i trattamenti possono sortire i risultati migliori.
Sappiamo che la dislessia, così come altri disturbi dell'apprendimento, può presentare una incidenza familiare e pertanto alcuni filoni di ricerca si sono concentrati appunto nella individuazione dei correlati genetici del disturbo.
Ieri il nostro CNR ha diffuso la notizia della pubblicazione di uno studio italiano condotto da diversi ricercatori facenti capo sia allo stesso CNR che alle Università di Pisa e di Milano, dove è stato indagato il ruolo di un locus genetico (DCDC2) che risulta alterato nel 20% dei dislessici.
Il lavoro è stato pubblicato il 27 maggio sulla rivista the Journal of Neuroscience: gli studiosi dimostrano l'associazione tra l'alterazione del gene DCDC2 e la presenza di un particolare disturbo della visione: fino ad oggi infatti, malgrado fosse già riconosciuta la frequente presenza di questo gene alterato nei dislessici, non ne era ancora stato individuato il ruolo, ma grazie a questo studio, la riscontrata associazione con il disturbo della visione, consentirebbe di classificare questa forma specifica di dislessia come un sottotipo, dove è appunto il disturbo di integrazione o l'alterazione di una specifica forma di gnosia visiva la condizione responsabile del deficit funzionale.
In particolare è stato riscontrato che le persone con questa alterazione visiva sono capaci di riconoscere forma ed orientamento di una immagine od oggetto, ma sono "ciechi" nell'individuare la direzione del movimento di alcuni stimoli visivi.
Secondo i ricercatori il difetto genetico potrebbe funzionare come marker capace di consentire l'individuazione precoce almeno di questa fetta di soggetti dislessici ai quali quindi potrebbe essere garantito un trattamento riabilitativo efficace fin dalla prima infanzia, vale a dire nell'età di massima plasticità neuronale, quando i trattamenti possono sortire i risultati migliori.
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