Istat: il nuovo Pil italiano gonfiato dalla illegalità
Come si ricorderà a partire dal primo settembre di quest'anno ed in ottemperanza alla normativa europea, il calcolo del Pil dovrà tenere conto della cosiddetta economia sommersa.
Ieri sul sito dell'Istat è stato pubblicato il ricalcolo del Pil 2011 includendovi i presunti introiti delle attività non visibili ed illegali, basati sulle indicazioni del famoso Sec 2010.
Nel 2011 con i vecchi calcoli era stato valutato un Pil pari a 1.579,9 miliardi, mentre l'attuale conteggio porta ad una cifra complessiva di 1.638,9 miliardi: una stima di 59 miliardi in più circa, corrispondenti al 3,7% del valore calcolato inizialmente.
In effetti l'Istat precisa che la maggior parte della crescita del Pil in base al nuovo tipo di computo è legata alla capitalizzazione delle spese per la ricerca e lo sviluppo che inciderebbero per un buon 1,3 punti percentuali, corrispondenti a 20,6 miliardi e per un'altra quota invece la rivalutazione sarebbe dovuta alle innovazioni metodologiche. La discussione e l'attenzione del pubblico restano comunque sul computo della economia sommersa, che (sia detto per inciso) non contempla soltanto attività delinquenziali come il contrabbando o considerate esecrabili, come la prostituzione, bensì anche tutte le posizioni lavorative non regolamentate da qualche forma di contratto o modalità comunque giuridicamente e fiscalmente riconosciuta e tassabile.
In parole semplici si parla del cosiddetto lavoro in nero: una piaga diffusa ed accettata in fondo nel nostro paese ben più di quanto si voglia credere, cominciando, per dirne una, dalle aziende a conduzione familiare, dove tutti i componenti della famiglia lavorano, ma senza alcun riconoscimento, garanzia contrattuale, né aggravio fiscale per il datore di lavoro.
Parlare di lavoro nero, mentre la maggiore attenzione del pubblico va alle lucciole, ai ricettatori ed ai contrabbandieri ci aiuta a comprendere meglio la realtà sociale ed a liberarci dall'ossessione che in Italia le operazioni illegali abbiano di fatto un mercato così esteso e redditizio o che vi sia veramente così tanta gente dedita alla prostituzione (senza nulla togliere del rispetto umano dovuto alla categoria). Insomma dei circa 40 miliardi in surplus che restano, tolta la capitalizzazione dei fondi per lo sviluppo e la ricerca, per una buona fetta sono i salari di braccianti agricoli, muratori, colf, badanti e così via, non inquadrati contrattualmente e che comunque non versano tasse e contributi.
A risparmiare le tasse non ci sono soltanto le prostitute, ma molto datori di lavoro: questa è la realtà.
I calcoli sono naturalmente fondati su parametri statistici in base ai quali vengono ipotizzate le cifre: il sommerso, proprio in quanto tale, difficilmente si presta ad osservazioni fedeli e precise.
Nel dettaglio l'economia illegale inciderebbe sulla rivalutazione per 15,5 miliardi di euro di cui 10,5 miliardi sono i proventi del mercato degli stupefacenti, 3,5 miliardi i guadagni stimati delle prostitute e 0,3 miliardi i guadagni del contrabbando di sigarette.
Al netto di quella quota di rivalutazione legata a modificazioni metodologiche, al netto delle attività illegali, già elencate sopra e della capitalizzazione delle spese per la ricerca, restano tra i 20 ed i 25 miliardi di euro legati a situazioni di irregolarità lavorativa.
Ieri sul sito dell'Istat è stato pubblicato il ricalcolo del Pil 2011 includendovi i presunti introiti delle attività non visibili ed illegali, basati sulle indicazioni del famoso Sec 2010.
Nel 2011 con i vecchi calcoli era stato valutato un Pil pari a 1.579,9 miliardi, mentre l'attuale conteggio porta ad una cifra complessiva di 1.638,9 miliardi: una stima di 59 miliardi in più circa, corrispondenti al 3,7% del valore calcolato inizialmente.
In effetti l'Istat precisa che la maggior parte della crescita del Pil in base al nuovo tipo di computo è legata alla capitalizzazione delle spese per la ricerca e lo sviluppo che inciderebbero per un buon 1,3 punti percentuali, corrispondenti a 20,6 miliardi e per un'altra quota invece la rivalutazione sarebbe dovuta alle innovazioni metodologiche. La discussione e l'attenzione del pubblico restano comunque sul computo della economia sommersa, che (sia detto per inciso) non contempla soltanto attività delinquenziali come il contrabbando o considerate esecrabili, come la prostituzione, bensì anche tutte le posizioni lavorative non regolamentate da qualche forma di contratto o modalità comunque giuridicamente e fiscalmente riconosciuta e tassabile.
In parole semplici si parla del cosiddetto lavoro in nero: una piaga diffusa ed accettata in fondo nel nostro paese ben più di quanto si voglia credere, cominciando, per dirne una, dalle aziende a conduzione familiare, dove tutti i componenti della famiglia lavorano, ma senza alcun riconoscimento, garanzia contrattuale, né aggravio fiscale per il datore di lavoro.
Parlare di lavoro nero, mentre la maggiore attenzione del pubblico va alle lucciole, ai ricettatori ed ai contrabbandieri ci aiuta a comprendere meglio la realtà sociale ed a liberarci dall'ossessione che in Italia le operazioni illegali abbiano di fatto un mercato così esteso e redditizio o che vi sia veramente così tanta gente dedita alla prostituzione (senza nulla togliere del rispetto umano dovuto alla categoria). Insomma dei circa 40 miliardi in surplus che restano, tolta la capitalizzazione dei fondi per lo sviluppo e la ricerca, per una buona fetta sono i salari di braccianti agricoli, muratori, colf, badanti e così via, non inquadrati contrattualmente e che comunque non versano tasse e contributi.
A risparmiare le tasse non ci sono soltanto le prostitute, ma molto datori di lavoro: questa è la realtà.
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Nel dettaglio l'economia illegale inciderebbe sulla rivalutazione per 15,5 miliardi di euro di cui 10,5 miliardi sono i proventi del mercato degli stupefacenti, 3,5 miliardi i guadagni stimati delle prostitute e 0,3 miliardi i guadagni del contrabbando di sigarette.
Al netto di quella quota di rivalutazione legata a modificazioni metodologiche, al netto delle attività illegali, già elencate sopra e della capitalizzazione delle spese per la ricerca, restano tra i 20 ed i 25 miliardi di euro legati a situazioni di irregolarità lavorativa.
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