Giornata internazionale della felicità
Foto di Vin.cen |
Cosa è dunque la felicità? Stando al pessimismo leopardiano, sarebbe l'essere vivi e senzienti senza provare dolore. La felicità intesa come assenza di dolore viene esplicitata in un passo dello "Zibaldone": "Se l'uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere fosse tal sensazione purché non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice". Alcuni di noi tuttavia preferiscono pensare alla felicità come qualcosa che vada oltre il non trovarsi in una condizione di sofferenza o di bisogno: preferiamo pensare alla felicità come ad una sensazione sublime ed ineffabile, magari anche impossibile da raggiungere, ma che esiste da qualche parte in un luogo del firmamento o del nostro animo: qualcosa che solo i più fortunati riescono ad immaginare.
Da un punto di vista generale per felicità si intende uno stato di completo benessere psicofisico, il che include il sentirsi vivi ed in armonia con se stessi, godere di buona salute ed essere in condizioni di soddisfare tutti i propri bisogni, come trovarsi in un ambiente confortevole, accogliente e sicuro, essere nutriti e dissetati: praticamente la condizione di un neonato ben accudito. Il neonato, quando lo è, non è consapevole di essere felice. Tutto quello che c'è da capire tuttavia è che la vita invece è movimento: lo snodarsi nel tempo di un percorso ed il movimento è generato da un bisogno o un desiderio, comunque una mancanza, che a sua volta potremmo definire sofferenza.
Amare la vita e sentirsi vivi implica la capacità di muoversi nello spazio lungo la linea del tempo: ci muoviamo perché abbiamo bisogno di qualcosa. Abbiamo bisogno di comunicare, di sgranchirci le gambe, di mangiare ed avvertiamo questi bisogni come desideri o mancanza di qualcosa, ovvero come sofferenza per la mancanza di qualcosa: sul piano logico quindi se amiamo la vita e se questo amore della vita rappresenta uno dei requisiti ineliminabili per il raggiungimento della felicità, allora dovremmo amare o quanto meno accettare senza rabbia la sofferenza implicita nel fatto stesso di essere vivi.
Naturalmente è una questione di misura e forse anche di qualità: la sofferenza vitale viene percepita in modo del tutto diverso da un dolore mortale, quando quest'ultimo viene percepito, perché la natura ci aiuta da questo punto di vista. Oltre una certa soglia di dolore infatti viene meno la coscienza. Sul piano concreto è più facile trovare la felicità e la gioia nelle persone che hanno sperimentato delle privazioni, più che in altre malate di noia, benché anche in questo caso sia ancora una volta una questione di soglia: ciascuno di noi ha una propria soglia individuale entro i cui limiti è capace di elaborare positivamente il proprio dolore. Oltre la soglia invece il dolore può incattivirci e deteriorarci: farci perdere la fiducia in noi stessi, nell'umanità con i suoi valori e nella vita. Oltre quella soglia la felicità smette di abitare quel luogo recondito della nostra mente: il nostro piccolo personale giardino dell'Eden.
Non è facile raggiungere la piena felicità, ma quando guardo il sorriso dei miei figli, io sono felice.
RispondiEliminaSaluti a presto.
Che splendida l'immagine di felicità che suggerisci Cavaliere: grazie e buona notte alla tua famiglia.
EliminaIo credo che la felicità totale, quella che appaga ogni senso e ogni tormento, non sia del tutto raggiungibile. Anzi, è ben probabile che la vera felicità, quella che ci permette di andare avanti, sta nel sapersi amare con tutti i pregi e i difetti del caso, oltre a godere di tutte le piccole cose che abbiamo.
RispondiEliminaBasta fare un piccolo resoconto di quello che è successo/non è successo nell'arco della giornata per capire il nostro livello di felicità :)
Penso sia questo anche il senso del post :-) Grazie della lettura Doppio Geffer.
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