Pianeta integrazione handicap: cosa manca
18/06/2013
Ad oltre 20 anni dalla famosa legge 104/92, che, almeno sotto il profilo legislativo, ha cancellato il ghetto delle classi differenziali, volendo tirare le somme e fare un bilancio di quanto sia realmente cambiato nelle scuole e nella società rispetto alla integrazione della disabilità, potremmo accorgerci che il potenziale rivoluzionario di quella normativa risulta in qualche misura ora tradito ed ora non attuato realmente.
Non intendo qui scivolare nelle solite contumelie e lamentazioni, che, seppure in parte motivate, finiscono per fornire ottimi alibi a tutti coloro che adducendo carenze ed inadempienze istituzionali e del sistema, badano a giustificare ed assolversi per il proprio disimpegno personale.
Non avviene nessun reale cambiamento se non cambia la cultura e la "mentalità" sulla quale ciascuna persona basa le proprie pratiche quotidiane: insomma oggi faremo a meno di dire: "Piove: governo ladro!", tanto più che oggi non piove affatto, oggi invece proveremo a mettere in discussione le istituzioni, ma in una prospettiva "dal basso".
Oggi parleremo degli operatori, ovvero di coloro che sono chiamati in prima linea con il loro lavoro diretto ed il loro coinvolgimento umano ad elaborare, favorire, sostenere e realizzare i percorsi di integrazione.
Cominciamo da questo: secondo voi una persona è handicappata ovvero disabile oppure ha un handicap ovvero una disabilità? O ancora ha una diversa abilità?
Questo, come è ovvio è un problema di linguaggio e di sicuro, come già rilevato in altre occasioni, problemi di linguaggio in questo settore ve ne sono parecchi, soprattutto a causa della connotazione dispregiativa che alcuni termini finiscono per assumere nel linguaggio comune: è curioso rilevare che questa lingua in fuga dalle connotazioni dispregiative finisca poi per approdare all'attributo "diverso", che magari era proprio quanto si cercava disperatamente di evitare di dover dire.
Ho un vago ricordo di un testo letterario geniale, una storia che gira intorno ad un fatto angoscioso che non può essere nominato. Nel gruppo di protagonisti domina "la paura delle parole" come se funzionasse una sorta di pensiero magico ed essi quindi si comportano come se l'assenza della parola corrispondesse ad una smaterializzazione della realtà.
In effetti l'handicap, quale che sia la malattia o patologia che lo sottende, è una condizione che non basta definire "cronica" in quanto questa risulterebbe una connotazione puramente riferita all'aspetto medico che invero ne è parte, ma che va comunque tenuto distinto.
L'handicap è una condizione permanente, è parte del modo di essere e di ciò che una persona è per se stessa e per gli altri durante tutta la propria vita e la propria storia individuale, ciò che si rappresenta nella propria memoria e nella propria costruzione di identità, ovvero nella introiezione della immagine di sé.
Quale che sia la formulazione verbale che noi selezioniamo in definizione, ciò non toglie che questa persona dovrà essere in grado di riconoscere, accettare ed integrare le parti danneggiate di sé, per riuscire a condurre una vita serena, senza disprezzo per se stessa, né rabbia contro la natura, il prossimo ed il resto dell'umanità.
Nulla di facile: potete starne certi!
Ma questa maturazione emotiva passa proprio attraverso quelle relazioni sociali accoglienti, caratterizzate da un interesse autentico e da una attenzione affettiva concreta e pertanto valorizzante.
In questo punto intervengono gli operatori ed in questo punto probabilmente è necessaria una maggiore formazione: è istintivo infatti prediligere ed apprezzare chi ci gratifica facendoci sentire professionalmente capaci grazie ai suoi buoni risultati, è più facile sorridere a chi risponde col sorriso e constatare il frutto del proprio lavoro in menti rigogliose. Più difficile è tollerare il contatto con la sofferenza, la frustrazione di non poter apprezzare i risultati del proprio impegno: meccanismi di difesa, quali il disinvestimento, la presa di distanza nel tecnicismo, la rinuncia (pronta a colludere con la nostra pigrizia) sono sempre dietro l'angolo.
La formazione personale degli operatori accanto ad un costante aggiornamento tecnico sono condizioni fondamentali.
Naturalmente ancora non è tutto: in un'altra occasione ci toglieremo la soddisfazione di poter anche dire: "governo ladro!", per oggi ci fermiamo su queste riflessioni.
Ad oltre 20 anni dalla famosa legge 104/92, che, almeno sotto il profilo legislativo, ha cancellato il ghetto delle classi differenziali, volendo tirare le somme e fare un bilancio di quanto sia realmente cambiato nelle scuole e nella società rispetto alla integrazione della disabilità, potremmo accorgerci che il potenziale rivoluzionario di quella normativa risulta in qualche misura ora tradito ed ora non attuato realmente.
Non intendo qui scivolare nelle solite contumelie e lamentazioni, che, seppure in parte motivate, finiscono per fornire ottimi alibi a tutti coloro che adducendo carenze ed inadempienze istituzionali e del sistema, badano a giustificare ed assolversi per il proprio disimpegno personale.
Non avviene nessun reale cambiamento se non cambia la cultura e la "mentalità" sulla quale ciascuna persona basa le proprie pratiche quotidiane: insomma oggi faremo a meno di dire: "Piove: governo ladro!", tanto più che oggi non piove affatto, oggi invece proveremo a mettere in discussione le istituzioni, ma in una prospettiva "dal basso".
Oggi parleremo degli operatori, ovvero di coloro che sono chiamati in prima linea con il loro lavoro diretto ed il loro coinvolgimento umano ad elaborare, favorire, sostenere e realizzare i percorsi di integrazione.
Cominciamo da questo: secondo voi una persona è handicappata ovvero disabile oppure ha un handicap ovvero una disabilità? O ancora ha una diversa abilità?
Questo, come è ovvio è un problema di linguaggio e di sicuro, come già rilevato in altre occasioni, problemi di linguaggio in questo settore ve ne sono parecchi, soprattutto a causa della connotazione dispregiativa che alcuni termini finiscono per assumere nel linguaggio comune: è curioso rilevare che questa lingua in fuga dalle connotazioni dispregiative finisca poi per approdare all'attributo "diverso", che magari era proprio quanto si cercava disperatamente di evitare di dover dire.
Ho un vago ricordo di un testo letterario geniale, una storia che gira intorno ad un fatto angoscioso che non può essere nominato. Nel gruppo di protagonisti domina "la paura delle parole" come se funzionasse una sorta di pensiero magico ed essi quindi si comportano come se l'assenza della parola corrispondesse ad una smaterializzazione della realtà.
In effetti l'handicap, quale che sia la malattia o patologia che lo sottende, è una condizione che non basta definire "cronica" in quanto questa risulterebbe una connotazione puramente riferita all'aspetto medico che invero ne è parte, ma che va comunque tenuto distinto.
L'handicap è una condizione permanente, è parte del modo di essere e di ciò che una persona è per se stessa e per gli altri durante tutta la propria vita e la propria storia individuale, ciò che si rappresenta nella propria memoria e nella propria costruzione di identità, ovvero nella introiezione della immagine di sé.
Quale che sia la formulazione verbale che noi selezioniamo in definizione, ciò non toglie che questa persona dovrà essere in grado di riconoscere, accettare ed integrare le parti danneggiate di sé, per riuscire a condurre una vita serena, senza disprezzo per se stessa, né rabbia contro la natura, il prossimo ed il resto dell'umanità.
Nulla di facile: potete starne certi!
Ma questa maturazione emotiva passa proprio attraverso quelle relazioni sociali accoglienti, caratterizzate da un interesse autentico e da una attenzione affettiva concreta e pertanto valorizzante.
In questo punto intervengono gli operatori ed in questo punto probabilmente è necessaria una maggiore formazione: è istintivo infatti prediligere ed apprezzare chi ci gratifica facendoci sentire professionalmente capaci grazie ai suoi buoni risultati, è più facile sorridere a chi risponde col sorriso e constatare il frutto del proprio lavoro in menti rigogliose. Più difficile è tollerare il contatto con la sofferenza, la frustrazione di non poter apprezzare i risultati del proprio impegno: meccanismi di difesa, quali il disinvestimento, la presa di distanza nel tecnicismo, la rinuncia (pronta a colludere con la nostra pigrizia) sono sempre dietro l'angolo.
La formazione personale degli operatori accanto ad un costante aggiornamento tecnico sono condizioni fondamentali.
Naturalmente ancora non è tutto: in un'altra occasione ci toglieremo la soddisfazione di poter anche dire: "governo ladro!", per oggi ci fermiamo su queste riflessioni.
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