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Recensione di “l’Amico ritrovato” di Fred Uhlman


È  il mio primo approccio con questo autore e la mia impressione generale, alla fine, è una specie di stupore che tocca un po’ confusamente altre corde tra le mie emozioni, ma non riesco a capire se di soddisfazione, di tenerezza o di melanconia. La storia è ambientata per quasi tutta la narrazione  in Germania, nella città di Stoccarda, dove il protagonista, un ragazzo, Hans Schwarz di famiglia ebraica, frequenta il “Karl Alexander Gymnasium”  proprio nel periodo dell’ascesa al potere del nazismo. La trama, per sé stessa,  è molto semplice, limitata alla descrizione di una profonda amicizia che legherà Hans ad un nuovo e prestigioso compagno di classe: Konradin von Hohenfels, discendente di una nobile e rispettata famiglia tedesca. L’amicizia, benché contrastata dalla madre di Konradin, durerà fino a quando le vicende storiche del paese non costringeranno Hans a fuggire in America presso alcuni parenti, mentre i suoi genitori, rimasti nella loro terra natale, sfuggono alla persecuzione ed alla tortura suicidandosi col gas in casa propria durante la notte (“… mentre mia madre dormiva, papà aprì il gas.”): l’evento è descritto in  una forma semplice e lapidaria, senza una sola parola superflua ed assolutamente senza alcun commento, proprio come l’inattesa conclusione, quando Hans, ormai avanti negli anni e naturalizzato americano, riceve una richiesta di fondi dalla sua vecchia scuola per la costruzione di un monumento funebre dedicato agli studenti morti in giovane età durante la guerra: gli studenti sono elencati in ordine alfabetico.

Dopo molte esitazioni, il protagonista riesce a guardare i nomi della lettera “H”: “VON HOHENFELS, Konradin, implicato nel complotto per uccidere Hitler. Giustiziato. Qui la storia rimane conclusa o troncata come la vita di Konradin, senza un’altra parola che possa stemperarne la sensazione che resta: è chiaro che Konradin non ha tradito l’amicizia, né Hans si era sbagliato nel credere nella lealtà e purezza dei sentimenti dell’amico, che è così “ritrovato” in un elenco di caduti.

Del romanzo colpisce lo stile: scritto in prima persona, coinvolge subito il lettore nei pensieri e nelle emozioni del protagonista, i pensieri idealistici ed i sentimenti estremizzati di un adolescente un po’ introverso, che prima di legarsi a questa nuova amicizia, stava per conto suo. I personaggi  sono tratteggiati abilmente e sembrano disegnarsi innanzi allo sguardo di chi legge: il viso, l’andamento, l’abbigliamento ed i modi di fare di insegnanti e compagni, così anche l’aula, i banchi, gli odori e poi ancora i paesaggi esplorati durante le passeggiate di Hans e Konradin. 

Lo scrittore indugia nella descrizione dei suoi genitori, ma, come sempre, ne dipinge il carattere riferendo piccole storie ed aneddoti sul loro conto: il loro rapporto, per lo più occasionale e formale, con la religione, l’abitudine della madre di beneficare contraddittoriamente gruppi religiosi diversi, che sembra sottendere l’implicito che il bene ha una sua propria bandiera, i modi di fare schietti, coraggiosi ed un po’ pomposi del padre e la prestanza fisica di entrambi madre e padre (“due esemplari notevoli”), che raccontata così, figura come la sintesi di un affetto non esplicitato nel  testo che viene presentato come il diario di un adolescente poco comunicativo e magari un po’ in conflitto coi genitori. La figura della madre di Konradin viene delineata come una immagine distante appartenente ad un altro mondo, la contessa di carnagione olivastra, ingioiellata, elegante e senza altri sentimenti se non la consapevolezza del proprio privilegio.

L’inizio della emarginazione e quindi della persecuzione degli ebrei viene descritto dall’esterno crudamente attraverso la cronaca degli episodi ed accadimenti scolastici e familiari: qui  i vissuti del protagonista vengono lasciati alla facile intuizione di chi legge. La storia dei sentimenti adolescenziali finisce in questo punto. È una lettura scorrevole ed avvincente … appena un tantino amara.

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