"Bis ans Ende der Welt" Fino alla Fine del Mondo: storia di una vita virtuale.
03/05/2013
"Fino alla Fine Del Mondo" come molti ricorderanno, è il titolo di un film vecchio ed assolutamente affascinante del 1991, diretto dal regista tedesco Wim Wenders.
L'ho visto, come tutti quelli che lo conoscono, più di 20 anni fa ed è una di quelle opere che contengono immagini e pensieri che hanno suggestionato profondamente la mia fantasia.
Non voglio soffermarmi sulla bellezza dei luoghi e del viaggio, né sulla sensibilità della storia d'amore nata tra i protagonisti, ma sul fulcro ideativo della vicenda: la telecamera che riprende i sogni, quelli che popolano il nostro sonno notturno e che tanto spesso non sembrano lasciare traccia nella nostra memoria cosciente.
La possibilità di rivedere da svegli il film dei propri sogni, proiettandolo semplicemente su di uno schermo e la feroce dipendenza con cui questa magica opportunità finisce per attanagliare la mente di coloro che si lasciano sedurre dall'avventura di sondare il più profondo dei misteri in se stessi, rappresenta il nucleo geniale dell'opera. Nessuna altra forma di dipendenza riesce a rispecchiare così lucidamente il velenoso miele della follia.
La storia di "Bis ans Ende der Welt" mi torna in mente oggi per analogia, mentre rifletto sulla socialità del mondo virtuale, intendo le amicizie, le corrispondenze, la comunicazione con "entità" più che persone, che si stabiliscono all'interno di social e community virtuali. Escludo, naturalmente da questa riflessione tutte quelle situazioni in cui la comunicazione è finalizzata a scopi concreti (come incontri sentimentali o finalità commerciali) mi limito, come spero sia ovvio, a quelle corrispondenze che nascono e vivono nel mondo virtuale solo per una forma di comunicazione sostanzialmente fine a se stessa, dato che dopo i bisogni fisiologici, il bisogno di comunicare resta in cima alla scala di quelle che sono le esigenze di spazio vitale per il genere umano.
Ebbene in queste relazioni nascono simpatie, antipatie, rivalità, ammirazione, affetto, odio, disprezzo: insomma vi si esprime tutta la gamma di emozioni e di investimenti affettivi di cui un individuo è capace, ma ... il rimando di realtà che ciascuno riesce ad ottenere dalle altre persone o nick (maschere) che in questa dimensione celano l'individuo è qualcosa di così fragile ed evanescente che sul display del computer spesso non si percepisce altro se non la raffigurazione ovvero "proiezione" di una propria fantasia od esigenza emotiva, comunque la si voglia definire.
Sappiamo tutti che in buona misura questo è quanto avviene anche nella realtà dei rapporti umani, laddove la realtà si può vedere e toccare, ma in questo mondo sono la reciproca misura e proporzione dei componenti ciò da cui dipende la qualità del prodotto che riusciamo ad ottenere e forse su un display si riflette e torna indietro, molto più di quanto possa invece trasparire o essere trasmesso.
Un modo dunque di rispecchiare e declinare noi stessi in una specie di sogno ad occhi aperti, che (guarda caso) può renderci anche fortemente dipendenti.
Dedico questi pezzetti di pensiero che emergono casualmente in superficie ad un amico immaginario della mia ennesima infanzia.
"Fino alla Fine Del Mondo" come molti ricorderanno, è il titolo di un film vecchio ed assolutamente affascinante del 1991, diretto dal regista tedesco Wim Wenders.
L'ho visto, come tutti quelli che lo conoscono, più di 20 anni fa ed è una di quelle opere che contengono immagini e pensieri che hanno suggestionato profondamente la mia fantasia.
Non voglio soffermarmi sulla bellezza dei luoghi e del viaggio, né sulla sensibilità della storia d'amore nata tra i protagonisti, ma sul fulcro ideativo della vicenda: la telecamera che riprende i sogni, quelli che popolano il nostro sonno notturno e che tanto spesso non sembrano lasciare traccia nella nostra memoria cosciente.
La possibilità di rivedere da svegli il film dei propri sogni, proiettandolo semplicemente su di uno schermo e la feroce dipendenza con cui questa magica opportunità finisce per attanagliare la mente di coloro che si lasciano sedurre dall'avventura di sondare il più profondo dei misteri in se stessi, rappresenta il nucleo geniale dell'opera. Nessuna altra forma di dipendenza riesce a rispecchiare così lucidamente il velenoso miele della follia.
La storia di "Bis ans Ende der Welt" mi torna in mente oggi per analogia, mentre rifletto sulla socialità del mondo virtuale, intendo le amicizie, le corrispondenze, la comunicazione con "entità" più che persone, che si stabiliscono all'interno di social e community virtuali. Escludo, naturalmente da questa riflessione tutte quelle situazioni in cui la comunicazione è finalizzata a scopi concreti (come incontri sentimentali o finalità commerciali) mi limito, come spero sia ovvio, a quelle corrispondenze che nascono e vivono nel mondo virtuale solo per una forma di comunicazione sostanzialmente fine a se stessa, dato che dopo i bisogni fisiologici, il bisogno di comunicare resta in cima alla scala di quelle che sono le esigenze di spazio vitale per il genere umano.
Ebbene in queste relazioni nascono simpatie, antipatie, rivalità, ammirazione, affetto, odio, disprezzo: insomma vi si esprime tutta la gamma di emozioni e di investimenti affettivi di cui un individuo è capace, ma ... il rimando di realtà che ciascuno riesce ad ottenere dalle altre persone o nick (maschere) che in questa dimensione celano l'individuo è qualcosa di così fragile ed evanescente che sul display del computer spesso non si percepisce altro se non la raffigurazione ovvero "proiezione" di una propria fantasia od esigenza emotiva, comunque la si voglia definire.
Sappiamo tutti che in buona misura questo è quanto avviene anche nella realtà dei rapporti umani, laddove la realtà si può vedere e toccare, ma in questo mondo sono la reciproca misura e proporzione dei componenti ciò da cui dipende la qualità del prodotto che riusciamo ad ottenere e forse su un display si riflette e torna indietro, molto più di quanto possa invece trasparire o essere trasmesso.
Un modo dunque di rispecchiare e declinare noi stessi in una specie di sogno ad occhi aperti, che (guarda caso) può renderci anche fortemente dipendenti.
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